DAVVERO LE RELAZIONI SOCIALI RIDUCONO I PREGIUDIZI? CERCHIAMO DI DIMOSTRARE CIÒ CHE VIENE DATO PER SCONTATO IN NIGERIA
Quest’articolo fa parte del lavoro di AP in supporto all’implementazione dell’Agenda Giovani, Pace e Sicurezza, come questa è stata definita dalla Risoluzione 2250 (2015) del Consiglio di Sicurezza ONU. Per scoprire di più sul nostro lavoro e leggere gli articoli già pubblicati, visita questa pagina.
In questi ultimi anni c’è stato un incremento nel numero di progetti di peacebuilding che cercano di favorire il contatto fra membri di gruppi in conflitto al fine di diminuire il pregiudizio reciproco e la discriminazione. Nelle intenzioni dei responsabili della realizzazione di queste iniziative, una riduzione dei pregiudizi e della discriminazione nei soggetti target porterebbe ad una maggiore cooperazione tra gruppi, a minori conflitti in tutta la società e – potenzialmente – a una pace e una stabilità a lungo termine. Nonostante ciò, rimane ancora aperta una questione cruciale, ovveri se sia vero che il contatto tra membri di gruppi in conflitto migliori in effetti il loro modo di relazionarsi? È importante riconoscere che la progettazione di questi interventi si basa su un presupposto che viene raramente messo in discussione. Per progettare in maniera efficace futuri interventi, è dunque necessario dimostrare che il contatto sociale riduca effettivamente i pregiudizi e le discriminazioni.
Il presupposto che il contatto fra gruppi in conflitto migliori le relazioni tra gli stessi si ritrova spesso nella progettazione di iniziative di peacebuilding, ma trae le sue origini dall’ipotesi sul contatto sociale delineata per la prima volta da Gordon Allport in “La natura del pregiudizio”. L’ipotesi sostiene che il contatto interpersonale tra individui appartenenti a gruppi ostili, se strutturato all’interno di contesto cooperativo, dovrebbe ridurre i pregiudizi, promuovere rapporti amichevoli e, di conseguenza, migliorare la relazione tra i gruppi. Come originariamente proposto da Allport, il contatto sociale tra gruppi in conflitto dovrebbe ridurre i pregiudizi, in primo luogo, aumentando la conoscenza dell’altro gruppo, in secondo luogo, riducendo la paura nei confronti degli individui appartenenti all’altro gruppo e, infine, aumentando l’empatia verso colui che veniva precedentemente percepito come “nemico”. Tuttavia, gli effetti del contatto sociale intergruppo variano da un gruppo etnico all’altro e sono seriamente influenzati dalla gravità delle ostilità pregresse e della violenza che si è verificata in quello specifico contesto.
Nonostante la quantità di letteratura accademica ispirata alla teoria di Allport, c’è una carenza di studi sperimentali sul contatto ed i pregiudizi tra gruppi. Sebbene l’affermazione fondamentale della teoria del contatto sociale – cioè che il contatto sociale positivo, a lungo termine e di pari status sociale con i membri del gruppo esterno diminuisca i pregiudizi – sia stata ampiamente applicata nei progetti di peacebuilding, la teoria non è mai stata testata direttamente in un ambiente in cui è in corso un conflitto. Questo è uno dei motivi per cui, nel 2014, un team di ricercatori della New York University (NYU) ha deciso di condurre un test sperimentale sulla Social Contact Theory in Nigeria. Con il sostegno dell’United States Institute of Peace (USIP), i ricercatori della NYU hanno progettato e realizzato un esperimento sul campo in un contesto di conflitto, l’ Urban Youth Vocational Training Program (UYVT).
Il programma UYVT è stato realizzato a Kaduna, una città nigeriana con circa un milione di cittadini situata al crocevia tra il Nord del paese, prevalentemente musulmano, ed il Sud, a maggioranza cristiana. La città è meno ricca di altre città della Nigeria meridionale, con livelli di disoccupazione più elevati e un reddito pro capite inferiore. La regione ha inoltre alle spalle una storia di violenza interreligiosa, con scontri tra cristiani e musulmani che, a partire dal 1999, hanno causato almeno 10.000 morti. I disordini hanno anche portato ad un’elevata segregazione abitativa e ad una diminuzione dei contatti sociali tra i due gruppi religiosi.
Il programma realizzato dalla NYU ha riunito un campione casuale di giovani cristiani e musulmani di età compresa tra i 18 e i 25 anni, provenienti dai quartieri svantaggiati e più soggetti alla violenza della città di Kaduna, e ha offerto loro un corso di formazione informatica della durata di sedici settimane. La formazione è stata concepita per verificare se e come il contatto prolungato tra i due gruppi avrebbero ridotto i pregiudizi e le discriminazioni e incoraggiato la cooperazione tra i due gruppi. Gli studenti e gli istruttori non erano a conoscenza dello scopo principale dello studio, ma hanno partecipato all’ UYVT considerandolo un programma di empowerment educativo rivolto alle comunità svantaggiate.
I risultati dell’esperimento sono molto interessanti per quegli operatori che sostengono fortemente i benefici del contatto sociale nel peacebuilding. In primo luogo, i ricercatori non hanno notato alcun cambiamento significativo in relazione ai pregiudizi tra i partecipanti. Il pregiudizio, a quanto pare, resiste fortemente al cambiamento. Hanno tuttavia registrato un aumento della generosità nei confronti dell’altro gruppo ed una generale diminuzione dei comportamenti discriminatori. Sostanzialmente, le attitudini sono lente a cambiare nei contesti di conflitto, ma è possibile promuovere un cambiamento comportamentale significativo grazie ad interventi progettati per promuovere il contatto sociale tra i gruppi in conflitto. Inoltre, concentrando la formazione sull’acquisizione di competenze estremamente pratiche- come ad esempio l’informatica- invece che su attività di educazione alla pace, i ricercatori si sono resi conto che il solo relazionarsi in un contesto positivo possa essere sufficiente a cambiare i comportamenti dei partecipanti, senza alcuna attività specificatamente collegata alla “pace”.
Dimostrare l’esistenza effettiva di una correlazione tra il contatto di gruppi in conflitto e la riduzione dei pregiudizi ha un forte impatto sulla la progettazione di iniziative di peacebuilding. Secondo il team di ricerca il programma stesso ha spinto i partecipanti, ad esempio, a manifestare una maggiore generosità nei confronti dell’altro gruppo. Questo vale anche per la cooperazione tra i gruppi. I progettisti dovrebbero quindi dare la priorità allo sviluppo di contenuti formativi validi che possano attirare partecipanti provenienti da ambienti svantaggiati e non solo volontari dalla mentalità già “aperta” ed alla ricerca di opportunità di educazione alla pace. Inoltre, per ottenere cambiamenti a lungo termine, potrebbe essere più realistico ed utile porsi come obiettivo un cambiamento comportamentale, piuttosto che la riduzione dei pregiudizi. Come hanno sottolineato i ricercatori della NYU, aumentare la generosità e favorire un modo di rapportarsi cooperativo con l’altro gruppo, indipendentemente dai pregiudizi interni, può essere un obiettivo più facilmente realizzabile che concentrarsi su atteggiamenti che sembrano resistenti al cambiamento.
Troppo spesso i progetti di peacebuilding sono concepiti sulla base del presupposto che questo articolo ha cercato di mettere in discussione, cioè che semplicemente riunendo le persone per discutere di questioni di pace, il pregiudizio tra gruppi in conflitto possa diminuire. I progetti di peacebuilding basati sul contatto tra individui si concentrano spesso sull’attuazione piuttosto che su una solida valutazione e sono spesso sprovvisti di un quadro rigoroso e sistematico per una raccolta dati che verifichi se è avvenuto un effettivo cambiamento nei comportamenti dei partecipanti. Inoltre, questi progetti di peacebuilding coinvolgono spesso persone che sono tendenzialmente già inclini a instaurare dei contatti pacifici. Per questo motivo, sarebbe opportuno contestare il presupposto che la pace è il risultato garantito di una maggiore interazione sociale, progettando interventi che tengano conto dei risultati di un esperimento sul campo di grande impatto come quello qui preso in esame.
Federica Mikael Sustersic è una specialista del peacebuilding e della trasformazione dei conflitti con un forte interesse per l’agenda Giovani, Pace e Sicurezza. Federica ha ottenuto un master europeo in Diritti umani e democratizzazione e ha recentemente finito un Master in Diplomazia culturale. Lavora come consulente e anche come designer di esperienza immersiva e trasformativa nel campo dei diritti umani e del multiculturalismo.