L’ITALIA DEVE FARE DI PIÙ PER LA LIBIA

La settimana scorsa, nel contesto del convegno organizzato dallo IAI il 14 giugno, il Ministro agli Affari Esteri Paolo Gentiloni ha parlato della stabilizzazione della Libia, ammettendo la lentezza del processo politico, ma al tempo stesso lodando il contributo dell’Italia nel migliorare la situazione sul terreno. Il governo italiano sta effettivamente giocando un ruolo di prima fila nella transizione libica, un merito che va riconosciuto. L’approccio finora adottato rimane tuttavia troppo limitato, sia in termini di partenariato che di tematiche affrontate.

Questo rappresenta un’enorme opportunità sprecata: l’Italia è nella posizione ideale per assicurare che la Libia arrivi ad avere uno stato inclusivo e rispettoso dei diritti dei suoi cittadini. Ma per fare questo deve allargare il suo approccio e, in particolare, appoggiare attori e istituzioni civili. Una società civile forte e indipendente può, infatti, bilanciare il ruolo delle milizie, creando il consenso civico necessario per completare i grandi processi di cambiamento legati alla transizione—questo è sicuramente uno degli insegnamenti più importanti dell’esperienza della Tunisia.

L’Italia ha investito molto nella stabilizzazione della Libia dopo la crisi del 2014, e, in gran parte grazie ai suoi sforzi, nel dicembre del 2015 si è arrivati all’accordo di Skhirat, che ha permesso la formazione del governo di unità nazionale (government of national accord, o GNA) sotto il primo ministro Fayez al-Sarraj. L’insediamento del GNA a Tripoli ha contribuito a migliorare la stabilità politica nel paese e ha coinciso con altri successi, tra i quali la recente riconquista della città di Sirte e la sconfitta dei miliziani dello Stato Islamico che la controllavano. Tuttavia rimangono notevoli difficoltà. Il GNA non è ancora stato riconosciuto né dal parlamento di Tobruk né dal potente generale Khalifa Haftar. In più, la Libia rimane afflitta da una doppia crisi, umanitaria ed economica, che indebolisce la legittimità popolare del nuovo governo.

Durante il convegno dello IAI, il Ministro Gentiloni ha parlato di tutti questi sviluppi e del lavoro del governo italiano nel sostenere il processo di riconciliazione: ha sottolineato come l’Italia s’impegni per l’inclusione di tutti gli attori politici nel processo di unità nazionale; ha inoltre confermato la priorità data alla stabilizzazione del paese e al bisogno di assicurare il protagonismo degli attori libici piuttosto che di un intervento internazionale. Questi punti, positivi in superficie, nascondono tuttavia il ben più limitato approccio dell’Italia. Per inclusione, infatti, il governo si riferisce solo al coinvolgimento delle fazioni politiche e delle loro milizie, in primis quelle del generale Haftar; per stabilizzazione il Ministro intende il ripristino dei sistemi di sicurezza; e anche il termine protagonismo sembra essere usato per indicare principalmente la necessità che siano soldati libici a combattere la minaccia terroristica.

In altre parole, il contributo italiano in Libia, oggi, si articola esclusivamente in termini politici e militari. Assenti dal discorso del Ministro Gentiloni, e più in generale dalle strategie del governo italiano, sono gli aspetti legati ai diritti umani, alla giustizia e alla società civile. Eppure, lavorare su questi temi è necessario per assicurare la stabilità e lo sviluppo dopo un conflitto, come dimostrano le esperienze di peacebuilding degli ultimi vent’anni, dall’Irlanda del Nord nel 1998 fino al Libano dopo il 2008 e al processo di pace in Colombia attualmente in corso. Ciò non nega la necessità di lavorare sul dialogo politico e la sicurezza, come l’Italia sta già facendo, ma rende questi interventi insufficienti: se l’obiettivo rimane quello di una Libia unita e democratica, l’Italia deve fare di più, impegnandosi ad appoggiare attori civili e a dare priorità a temi che vanno oltre gli aspetti politici e militari.

Questo significa innanzitutto che il governo italiano deve cercare di coinvolgere la nascente società civile libica. Non è un lavoro facile, dato lo stato frammentato e la debolezza del settore, ma vari esempi positivi esistono, come il lavoro dell’ONG inglese Peaceful Change Initiative, che ha creato dei partenariati per la pace sociale e lo sviluppo locale in 11 municipalità del paese, o l’impegno della Comunità di Sant’Egidio, che ha recentemente portato alla firma di un accordo umanitario per il Sud della Libia.

È importante sottolineare, tuttavia, che appoggiare la società civile in un paese ancora in conflitto comporta il rischio di alimentare tensioni tra varie organizzazioni e i gruppi da esse rappresentati. Per evitare questo, lanciamo un ultimo suggerimento: il governo italiano deve ritagliare un ruolo in prima fila per l’Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo (AICS). Nata nel gennaio del 2016, l’AICS riflette un modello ormai adottato in tutti i paesi europei: un’agenzia per lo sviluppo con un ruolo tecnico e indipendente, i cui obiettivi rimangono tuttavia legati a quelli del governo. In Libia, l’AICS, ancora più che l’ambasciata o anche l’ONU, può facilitare la crescita della società civile assicurando, e anche promuovendo, la trasparenza e l’accountability. Attualmente, l’AICS ha diciotto sedi nel mondo: noi speriamo che la Libia diventi presto la diciannovesima.