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Resistere alla normalizzazione della violenza

L’invasione dell’Ucraina sta portando con sé l’intero repertorio delle guerre: un bagno di sangue, violenza sempre più cruenta, disperazione, terrore e odio destinato a durate per generazioni. La guerra genera anche polarizzazione e porta a pensare che analizzare gli interessi e gli obiettivi di tutte le parti in conflitto e proporre spiegazioni complesse equivalga a giustificare la guerra stessa. Gli intellettuali tendono quindi ad allinearsi, a semplificare, a diventare o cronisti di guerra o apprendisti veggenti di scenari difficilmente prevedibili. In questo quadro, per dirla con le parole di Chris Hedges, “ci è difficile esprimere il nostro malessere, perché il grido collettivo ci impedisce di fare parole ai nostri pensieri”. È una guerra da fermare con drammatica urgenza, ma il senso d’impotenza lascia spesso gli osservatori più attenti ammutoliti.

Odio e violenza finiscono per diventare elementi di contorno: numeri e video da fruire per pochi secondi per poi passare oltre come un mosaico di tasselli oscuri che non compongono nessuna immagine. La violenza è cronaca, mentre l’analisi è lasciata solo per la salute mentale di Putin o per immaginare la geopolitica del futuro. Eppure sarebbe una guerra da guardare in profondità, capendo cosa vuol dire e cosa comporta vincerla, anche al di là delle tecniche militari e dell’equilibrio tra potenze. Osservando odio e violenza, emergerebbero alcuni aspetti determinanti per porne dei limiti.

Il primo aspetto è quello del restare umani. La guerra porta a percepire il nemico come un demone, come qualcosa da annientare senza pietà. Gesti come la pietà per il prigioniero di guerra, per esempio permettendogli una chiamata alla famiglia o evitandogli umiliazioni nel rispetto dei trattati e delle consuetudini internazionali, così come il rispetto dei corpi dei caduti, sono gesti che posso permettere di non superare il limite dell’inaccettabile e contribuiscono a limitare le lacerazioni future tra vicini di casa e tra popoli limitrofi.

Eppure gli orrori dell’invasione hanno innescato nel corso dei giorni reazioni sempre più brutali. Cadaveri lasciati in pasto ai cani, torture dei prigionieri, umiliazioni pubbliche e violenze su presunti saccheggiatori, spesso riportate dai media acriticamente, se non con un implicito sostegno, lasciando scivolare via l’idea che anche in guerra possa essere possibile mantenere un senso di umanità.

In parallelo, è corsa veloce da subito un’ovattata esaltazione della violenza tramite la sua normalizzazione nell’opinione pubblica. In altri tempi e contesti, armare bambini con fucili mitragliatori suscita indignazione, o almeno critica perplessità per il fatto che si tratta di un crimine di guerra. Così come sono stati mostrati ed esaltati interi quartieri impegnati a produrre molotov, un’arma limitata dal diritto di guerra perché incendiaria. È invece necessario, anche nel voler dare sostegno a una resistenza armata, porre degli interrogativi su valori fondamentali. Qual è il valore aggiunto di qualche ragazzino armato? Quali conseguenze può portare con sé nella sua vita?

Un punto centrale riguarda anche i russi e come l’aggressione in Ucraina rischia di essere sempre più considerata come una colpa collettiva. Non mancano voci su come sia fondamentale mantenere canali aperti con i dissidenti russi e come gli oppositori rimasti in patria rischino una doppia morsa: puniti dal regine putiniano e rigettati sul piano internazionale. Discriminare cittadini russi all’estero rischia di essere controproducente, così come pensare che ogni russo sia colpevole delle azioni del proprio governo. Chi protesta oggi in Russia compie un gesto di estremo coraggio e rischia di perdere il lavoro se non di di passare anni in carcere. Chi ha lasciato il paese può esprimersi più liberamente, e col dovuto sostegno può creare spazi perché il post-Putin sia meno autoritario e bellicoso. La Russia è il più grande paese del continente europeo e rimarrà in ogni caso un interlocutore imprescindibile in qualsiasi equilibrio globale: rimuovere questo dato può portare a nuove cesure.

Se c’è un filo rosso che unisce oggi Ucraina, Russia e Bielorussia è l’attivismo dal basso contro la guerra e contro l’autoritarismo. In tante città e villaggi ucraini abbiamo assistito dai primi giorni dell’invasione e proteste e manifestazioni disarmate. Segnali spontanei di dissenso che hanno mostrato come, anche se l’invasore può vincere qualche battaglia, non riuscirà a vincere la pace. Queste proteste danno forza alla resistenza e gettano le basi per ricostruire oltre l’odio e la violenza.


Bernardo Venturi è il Direttore di AP